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14 gennaio 2014

David Foster Wallace - Un antidoto contro la solitudine

Sono due le ultime uscite che riguardano David Foster Wallace in questo 2013: Di carne e di nulla e, appunto, Un antidoto contro la solitudine. Questo libro, a differenza del primo, non esce dal pungo del geniale scrittore statunitense, ma è una raccolta di interviste e conversazioni alle quali ha preso parte nel corso degli anni: precisamente fra il 1987 e, ovviamente, il 2008. Molti hanno gridato al raschio del barile, del fatto che si arriverà a pubblicare, come detto, anche le sue liste della spesa qualora ne avesse conservate. Trappola nella quale cadrei assolutamente anch'io, perchè sia chiaro: qualsiasi cosa riguardante DFW è senza ombra di dubbio degna di essere letta.
Detto questo, non ci si può certo aspettare una pubblicazione sbalorditiva essendo una raccolta di interviste. Ed effettivamente alcune di esse sono sinceramente inutili, con domande banali e lette ormai un milione di volte (sulla lunghezza di Infinite Jest, sulle lauree in filosofia e matematica), nelle cui trascrizioni si evince dallo stesso tono di Wallace una certa insofferenza: «Sono pessimo nelle intervite e le faccio solo se costretto con la forza». Domande del tipo: «Come riassumeresti la tua vita, dalla nascita all'estate del 2005?» oppure «Cosa preferisci fare tra giocare a tennis, andare al cinema, scrivere un romanzo di mille pagine [...]?» Nulla arricchiscono, nulla spiegano e il suo disagio si legge forte.
Ma fra molte di queste ce ne sono alcune che sono dei piccoli gioielli da custodire e che, c'è da giurarci, faranno la gioia dei più appassionati. In queste conversazioni disseminate qua e là emerge tutta la brillantezza di uno scrittore che aveva capito tutto, ma non ha avuto la forza di accettarlo. C'è Un'intervista estesa a DFW dove l'autore si dilunga in una conversazione sui suoi scritti ma anche sullo stato della letteratura post-moderna statunitense e quindi della società in generale, con il critico letterario Larry McCaffery, che potrebbe essere tranquillamente utilizzato come testo d'esame (favolose le discussioni sul rapporto fra materialismo e realismo con la R maiuscola). C'è Una conversazione con DFW e Richard Powers nella quale i due scrittori esplorano la letteratura come impresa, i lettori, il doloroso processo creativo. E poi c'è Gli anni perduti e gli ultimi giorni di DFW, articolo di David Lipsky pubblicato originariamente su Rolling Stone: una cavalcata drammatica della vita, delle opere, della malattia e del genio che stava dietro Foster Wallace.
Non saprei dire se sia una lettura consigliata a chi ha già letto tutto oppure vederla più in una veste propedeutica. Riassumere Wallace in poche righe non è né facile né di certo indicato: è necessario leggerlo in prima persona e assaporare tutta la complessità della sua mente, perchè dopotutto, come lui stesso sostiene, «la concisione non è il mio forte».


«Volevo scatenare l'esplosione da Armageddon che in fondo è sempre stato l'obiettivo della metafiction, volevo farla finita una volta per tutta, e poi, partendo dalle macerie, riaffermare l'idea che l'arte sia uno scambio vivente fra esseri umani, uno scambio che può essere eroico, altruistico, sadico. Dio mio, anche solo a parlarne mi viene da vomitare. Che cosa pretenziosa. I venticinquenni bisognerebbe chiuderli a chiave da qualche parte negandogli carta e penna.»

«Oggi ho ricevuto 500.000 informazioni distinte, ha detto una volta, delle quali forse venticinque sono importanti. Il mio lavoro consiste nel trovarci un senso.»

«Arrivava a quasi 1700 pagine. Ero assolutamente terrorizzato al pensiero di quanto sarebbe diventato lungo, mi ha confessato. Disse al suo editor che sarebbe stato un buon libro da spiaggia, nel senso che la gente poteva usarlo per farsi ombra.»

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