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30 giugno 2014

Brasile 2014: il Mondiale dei numeri #10

«La tecnocrazia dello sport professionistico ha imposto un calcio di pura velocità e molta forza che rinuncia all’allegria, che atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio. Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia verso l’avventura proibita della libertà.»
Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, 1995


Lo sfacciato con la faccia sporca di cui parla Galeano è il numero #10, anima e simbolo di questo sport, croce e delizia di allenatori esigenti che cercano di intrappolarlo in schemi e gerarchie. Portatore sano di estro, chi ha sulle spalle questo numero porta sulle spalle anche aspettative, esigenze, responsabilità delle quali non sempre riesce a farsi carico. Questo Mondiale è stato il loro Mondiale e questa è una rassegna di tutti i #10 che vi hanno lasciato il loro segno.



Il #10 che si è fermato alla Finale

È stato il Mondiale del #10 argentino Lionel Andrés Messi, chiamato finalmente a raggiungere il maestro Maradona alla terza partecipazione. Tutti aspettavano l’esplosione della Pulga anche in un Mondiale, l’unica competizione che ancora manca nella bacheca del capitano argentino, dopo due edizioni poco fortunate. Lui ci mette sessantacinque minuti all’esordio contro la Bosnia per entrare in gioco, quando una percussione centrale e un tiro millimetrico lo fanno impazzire di una gioia che sa tanto di liberazione. Da lì si carica la squadra sulle spalle, ma soprattutto la squadra si carica tutta sulle sue spalle: l’Argentina non gioca bene, è contratta e si affida quasi esclusivamente alle sue giocate. La sfida successiva conferma l’esordio: partita difficile da sbloccare, l’Iran è un muro e Leo è costantemente triplicato, ma ai fuoriclasse basta un secondo per cambiare le carte e a tempo scaduto, l’unica volta che gli iraniani si scordano di lui, esplode un sinistro a giro nell’unico pertugio possibile, fa scoppiare una Belo Horizonte invasa di cugini e si scrolla di dosso tutti i fantasmi. Il Mondiale di Messi può finalmente iniziare e la doppietta successiva alla Nigeria conferma che questa volta potrebbe essere la sua volta: un tap-in di sinistro ed una precisa punizione stendono il portiere nigeriano, suo grande tifoso. Gli ottavi di finale sono scorbutici, la Svizzera è chiusa e si finisce presto ai supplementari, ma è quando tutto sembra finire che esce il colpo del campione. Così, a due minuti dai temuti rigori, Messi intercetta un pallone a centrocampo e punta l’area col suo classico incedere impetuoso, salta un avversario ed appoggia per l’accorrente compagno che trasforma quell’assist in delirio. La tensione dell’eliminazione diretta e il peso di doversi caricare la squadra sulle spalle però cominciano a farsi sentire e i quarti contro i giovani belgi sono tutt’altro che indimenticabili, ma l’Argentina passa ugualmente il turno per un solo gol a a zero, nel quale Messi mette ancora lo zampino. Arriva il giorno della semifinale e la pressione è tanta, non solo per il fuoriclasse argentino ma per entrambe le nazionali, ne esce una partita anonima, senza spunti e praticamente senza tiri verso lo specchio della porta. Inevitabilmente sono i rigori ad assegnare la seconda finalista, Messi segna e porta la Selección all’atto conclusivo al Maracana. Al fischio d’inizio tutti gli occhi sono su di lui, gli esperti sostengono che l’unico motivo che potrebbe portare la coppa nelle strade di Buenos Aires è il #10 sulle sue spalle e Messi all’inizio non delude: le sue accelerazioni sembrano quelle delle serate migliori, la difesa tedesca è troppo lenta per le sue intuizioni, ma anche i suoi compagni d’attacco. Nel secondo tempo avrebbe anche l’occasione per fare la storia, ma defilato non riesce a centrare l’inviolabile porta tedesca. Lo spazio di gioco si restringe e la paura di non farcela aumenta ogni minuto di più, fino a quel maledetto centotredicesimo minuto quando gli avversari decidono la partita. Nella sua stagione “non migliore” entra in Brasile con una responsabilità personale e collettiva enorme e ci mette tutto per accontentarli ed accontentarsi; ne esce secondo, ma primo fra i #10. Forse non è un caso che il ventesimo Mondiale di calcio, moderno e rapido come non mai, l’abbia vinto una squadra senza un vero #10.


Il numero #10 che ha vinto il Mondiale, senza lasciare traccia: il tedesco Lukas Josef Podolski.


I #10 che si sono fermati alle Semifinali


 È stato il Mondiale del #10 brasiliano Neymar da Silva Santos Júnior, profeta in patria, il compito più difficile per un calciatore, decisamente il dieci più atteso insieme al compagno di club Messi. I sogni e le certezze di un popolo intero, chiamato a riscattare una delusione che dura ormai da sessantaquattro anni, passavano esclusivamente dalle sue giocate. Sì perché il Brasile non è più il Brasile inventore di straordinarie magie e creatore di giocatori dai doppi passi, piegato dai tatticismi europei e dalla poca fantasia di una generazione più intenta a correre che non a palleggiare. L’esordio in un Mondiale è sempre in salita e la Croazia è una squadra tosta, ma Neymar non delude e con un sinistro chirurgico che impiega il tempo di una rotazione terrestre e un rigore bagna il suo esordio mondiale con una doppietta. Si ripete nella terza partita contro il Camerun grazie ad un tocco puntuale e a una serpentina deliziosa, trascinando la sua nazionale alle eliminazioni dirette. Il Brasile è Neymar-dipendente dicono, quando lui non segna la Seleçao non vince. Tutto il paese, compagni compresi, aspetta che si inventi una giocata e piange insieme a lui durante l’inno nazionale. La tradizione si mantiene anche agli ottavi, quando Neymar parte bene ma si spegne alla distanza e la gara finisce ai rigori, dove il brasiliano, va da sé, non sbaglia. Le incertezze sulla squadra cominciano ad essere molte e la sfida contro la Colombia nei quarti di finale, che regala al mondo due dei migliori numeri #10 del Mondiale, è per Neymar la più importante della sua giovane carriera. Il match prende subito la strada dei verde-oro, ma il fuoriclasse brasiliano non riesce ad incidere, giusto un paio di accelerazioni, due spunti in una partita pressoché grigia, dove non c’è stato bisogno di lui. Al novantesimo il Brasile sarà in semifinale, ma lui non ci sarà. Colpito a due minuti dalla fine da una ginocchiata che gli procura la frattura di una vertebra e un grande spavento non solo per lui ma per tutti gli appassionati, colpevole di essere capace di giocare a questo splendido sport. Il suo Mondiale finisce così, non parteciperà alla disfatta storica contro la Germania e si chiederà per sempre come sarebbe andata, consapevole che un campionato del mondo in casa capita, ai fortunati, una volta nella vita.

È stato il Mondiale del #10 olandese Wesley Benjamin Sneijder, fantasista dell’unica nazionale nella quale esiste un numero ancora più importante, quel #14 di Johan Cruijff. L’esperienza e l’estro discontinuo di un giocatore al terzo Mondiale da protagonista, faro della nazionale vicecampione in carica, chiamata alla difficile impresa di dover finalmente vincere qualcosa. Esordio da assoluto protagonista: dopo sette minuti si trova da solo davanti al portiere e gli spara il pallone in faccia, ma si rifà poco dopo con due assist che schiantano gi spagnoli, rivali della finale di quattro anni prima e che non riusciranno più a riprendersi, il primo è un cross su calcio di punizione, il secondo è un lancio di prima fantastico. Le altre due partite sono da normale amministrazione e l’Olanda passa il girone in scioltezza. Arrivano però gli ottavi al cardiopalma conto il Messico, per quaranta minuti la sua nazionale è eliminata, ma a due minuti dalla fine un pallone gli cade a pochi centimetri dal piede destro dal limite dell’area, lui lo calcia con la rabbia di chi si è sempre dovuto guadagnare i gradi e lo guarda infilarsi nel pertugio perfetto battendo il portiere avversario e le gambe dei difensori che si lanciano nel disperato tentativo di intercettarlo. I quarti vedono l’Olanda di fronte alla Costa Rica sorpresa del Mondiale. Sneijder gioca una partita bellissima, inventa calcio ma i suoi compagni balbettano davanti alla porta, così prova lui in solitaria a risolvere la partita: nel primo tempo un calcio di punizione chiama ad una grande parata il portiere centroamericano; nel secondo tempo, sempre su punizione, nella rivincita piazzata stavolta batte il portiere ma il pallone incoccia il palo. Nel secondo tempo supplementare, quando le speranze di evitare i calci di rigore sembrano nulle si inventa un tiro a giro dal limite dell’area, ma i conti in sospeso con i legni evidentemente non sono ancora regolati. Riesce comunque a passare alle semifinali, dove contro l’Argentina si gioca una delle partite più tattiche e meno spettacolari di questo campionato del mondo che finirà, naturalmente, ai rigori. Anche questa volta Sneijder calcia un bel rigore, ma il portiere argentino intuisce e compie una parata fantastica. L’Olanda arriverà terza battendo il Brasile nella finale per il terzo e quarto posto, ma il #10 olandese conclude il suo Mondiale dopo questa partita, vinto dalla stanchezza dei suoi muscoli e dalla delusione. 


I #10 che si sono fermati agli Quarti

È stato il Mondiale del #10 belga Eden Hazard, giovane fantasista con doti da fenomeno vero: dribbling, velocità, destro chirurgico, visione di gioco racchiusi in un solo calciatore che parte da sinistra per far male alle difese avversarie e servire assist al bacio ai compagni di squadra grazie alle sue intuizioni e alla sua visione di gioco. Alla prima partecipazione ad un Mondiale era atteso da tutti a fare grandi cose insieme al suo Belgio, sorpresa annunciata e quindi per definizione non più sorpresa. Alla prima sofferta partita riceve un pallone a metà campo e lo porta a braccetto fino alla difesa avversaria, dove serve un compagno che ribalta il risultato. Nella seconda partita è ancora decisivo quando a due minuti dalla fine, e dopo una serie infinita di tentativi, supera sempre sul lato sinistro dell’area di rigore tre difensori con la palla incollata ed offre all’attaccante ed al Belgio intero i quarti di finale su un piatto d’argento. Nella fase successiva non sarà incisivo come al solito e la sua nazionale uscirà contro l’Argentina ai quarti di finale, in una partita spenta e senza vere occasioni per lui. Non segna, ma il suo contributo per far emergere questa generazione di talenti vera e propria è stato decisivo.

È stato il Mondiale del #10 francese Karim Mostafa Benzema, erede di una maglia assai scomoda da portare per i transalpini, dieci per mancanza di #10. Un’esperienza personale da ricordare, un esordio mondiale bagnato con una doppietta grazie ad un rigore e ad un destro potentissimo sotto la traversa, ma non sarà questo a farlo entrare nella storia. Nel secondo tempo riceve un cross tagliato e col piatto sinistro incrocia dalla parte opposta, la palla incoccia il palo, attraversa tutto lo specchio e colpisce il portiere honduregno. Sarà gol? Passano i macchinosi due secondi e per la prima volta la neo-sperimentata goal-line technology mette d’accordo tutti assegnando l’autorete. Benzema è protagonista anche della partita successiva: sopra di due reti fallisce un calcio di rigore ma si rifà poco più tardi con tocco di astuzia col portiere in uscita. Ci sarebbe anche la possibilità per un secondo gol, ma l’arbitro decide che per il momento può bastare così e fischia la fine della partita mentre il francese sta tirando. Potevano essere sei gol in due partite, sono tre e due assist, non male come inizio. Gli ottavi contro la Nigeria sono impegnativi e Benzema comincia a giocare dopo una buona ora, quando il tecnico lo sposta al centro dell’attacco. Da lì saranno pericoli a frotte per l’incerta difesa africana, e il passaggio ai quarti di finale. Nei quarti il derby europeo con la Germania è durissimo e la difesa tedesca è inviolabile. Benzema riesce a sfuggire per l’unica volta a tempo scaduto e a scaraventare verso il primo palo un sinistro rabbioso, che il portiere tedesco riesce a respingere ad una mano. Il sogno si infrange su quel tiro, ma in patria si preparano a vivere da protagonisti l’europeo successivo.


È stato il Mondiale del #10 costaricano Bryan Ruiz González, attaccante alla prima partecipazione ad un Mondiale. Se la vittoria iniziale contro l’Uruguay aveva illuso tutti, quella contro l’Italia ha trasformato l’illusione in realtà, permettendo alla Costa Rica di eguagliare il miglior piazzamento nella competizione, alla sua quarta partecipazione. Proprio Ruiz ha avuto il triplice onore di decidere la partita con un colpo di testa sul secondo palo, di battere per la prima volta l’Italia e di portare la sua squadra agli ottavi di finale. Ma non è finita qua, perché proprio Ruiz con un sinistro chirurgico indirizzato millimetricamente sul secondo palo sfrutta una delle pochissime occasioni nella storica sfida contro una Grecia alla prima qualificazione alla fase ad eliminazione diretta di un Mondiale, contribuendo a qualificare per la prima volta la nazionale centroamericana ad un quarto di finale, dopo i calci di rigore. La sfida è quella delle più toste: l’Olanda del talento e dell’organizzazione. Ruiz e compagni però riescono a portare la partita nuovamente in fondo ai centoventi minuti, con la solita grinta e caparbietà, ma stavolta la lotteria gira. Ruiz stavolta fallisce il rigore e la Costa Rica esce dal Mondiale dei sogni a testa altissima, rientrando a casa fra gli onori del popolo, e senza eserciti.


È stato il Mondiale del #10 colombiano James David Rodríguez Rubio, ventitreenne dalla faccia pulita, vera sorpresa di questo Mondiale. Alla prima partecipazione lascia il segno come forse mai nessuno dai tempi di Ronaldo (quello originale), marchiando ogni singola partita. All’esordio fornisce una prestazione che entusiasma il pubblico e promette grandi cose; il gol arriva a tempo scaduto a coronamento di una partita splendida. Che non è stato solo un caso arriva subito la seconda partita a dimostrarlo: la Costa d’Avorio è un avversario tosto e James sblocca il risultato con un colpo di testa da calcio d’angolo ad anticipare nientemeno che Drogba. Nella terza partita, con la Colombia già qualificata, parte dalla panchina ma l’allenatore lo getta nella mischia ad inizio secondo tempo sul risultato di parità. In quarantacinque minuti riuscirà a fornire due assist perfetti, il primo con un tocco appena accennato con la punta del piede ed il secondo con un pallone filtrante alle spalle della difesa, di intelligenza sopraffina; riuscirà anche a segnare un gol grazie ad una finta che mette a sedere il difensore ed un colpo sotto a scavalcare il portiere. La Colombia chiude il girone a punteggio pieno ed ora comincia il vero Mondiale. Negli ottavi l’atteso derby sudamericano con l’Uruguay è marchiato nuovamente James Rodríguez: dopo ventotto minuti riceve un pallone ingiocabile a limite dell’area avversaria, spalle alla porta, lui lo stoppa di petto, si gira in una frazione di secondo e senza pensarci scaraventa un sinistro imprendibile sotto la traversa segnando probabilmente il gol più bello del Mondiale. Poco dopo si ripete con un tocco sottomisura, per la prima doppietta personale. Ai quarti arriva però l’avversario peggiore: contro il Brasile padrone di casa non c’è margine d’errore e sicuramente meno spazio per le giocate illuminanti del fantasista colombiano. James, dopo un primo tempo nel quale i brasiliani hanno passato il tempo a fargli sentire la lunghezza dei loro tacchetti, nel secondo sale in cattedra e comincia ad inventare calcio fino a quando non trova il passaggio filtrante per mettere davanti al portiere un suo compagno, che viene steso in area. Sul dischetto si presenta lui stesso che con freddezza magistrale spiazza e batte non un portiere qualsiasi. È però fatalmente troppo tardi, la Colombia che aveva mostrato il lato vero del calcio perde due a uno ed esce dal Mondiale e James viene consolato in mondovisione da tutti, avversari compresi, che ora sembrerebbero chiedere ai loro presidenti di averlo come compagno, piuttosto che doverlo marcare la prossima partita.


I #10 che si sono fermati agli Ottavi

È stato il Mondiale del #10 algerino Sofiane Feghouli, centrocampista dalle evidenti doti offensive ed una tecnica innata alla sua prima partecipazione ad un Mondiale. Se la sua nazionale era partita fra lo scetticismo della critica generale, impreparata a vedere una formazione nordafricana in questa competizione, lui ci mette poco più di venti minuti per far ricredere tutti, anche se il suo gol su rigore a fine partita sarà solamente valido per le statistiche. Nella seconda partita vinta senza discussioni, al sessantaduesimo prende palla sulla fascia destra, taglia tutto il campo e, dentro l’area sul lato opposto. con un triangolo che fa sembrare troppo semplice, mette davanti al portiere il suo compagno. Con le sue giocate, mischiate all’organizzazione di squadra, centra lo storico risultato di passare il turno per la prima volta nella storia dell’Algeria. Agli ottavi si presentano davanti alla favorita Germania con la consapevolezza che quell’avversario, seppur da sempre più forte, è già stato sconfitto due volte in passato. Feghouli mette in campo anche stavolta un misto di classe e sudore, fornendo anche un assist al centoventunesimo minuto di una partita che si era sbloccata solamente ai tempi supplementari. L’Algeria esce a testa alta, Allah ha chiamato i ventitré a rispettare il Ramadan e l’ultimo pensiero della stella algerina va ai suoi fratelli musulmani.

È stato il Mondiale del#10 svizzero Granit Xhaka, origini albanesi come molti, forse troppi compagni di squadra. Alla prima partecipazione ci impiega quasi due partite per mettere la sua firma: contro la Francia, sotto di quattro reti, Xhaka riceve un lancio perfetto appena dentro l’area, ruota il tronco in maniera sublime e al volo schiaffeggia di rabbia ed eleganza il pallone che finisce nell’angolino. Soddisfazione un po’ amara, ma vera. La sua Svizzera passa agli ottavi, Xhaka mette paura all’Argentina con un gran tiro da fuori nel primo tempo, ma dovrà cedere il passo davanti ad un dieci più forte di lui, più forte di tutti, e non riuscirà a giocare i quarti nemmeno stavolta.

È stato il Mondiale del #10 cileno Jorge Luis Valdivia Toro, fuoriclasse che alla seconda partecipazione ha il compito di fare gli onori di casa: da queste parti lo conoscono molto bene visto che da qualche anno veste la maglia del Palmeiras. Per lui gli applausi sono preventivi, tanto già si sa che farà qualcosa per meritarseli. Ci mette solamente quattordici minuti per lasciare la sua impronta indelebile, con un destro dal limite dell’area che colpisce la parte sotto della traversa e si deposita in rete. Uno degli ultimi veri numeri #10 in circolazione, quelli che a calcio sanno ancora come si gioca e si divertono a divertire, polmoni piccoli e testa alta. Nella seconda partita, con il suo Cile che si sta imponendo sui campioni della Spagna, il pubblico chiama a gran voce il suo ingresso in campo e il tecnico regala loro il delizioso tocco di palla e la romantica visione di gioco del Mago: sarà una delle infinite standing ovation che Valdivia si è assicurato nella sua carriera. Non partecipa alla sconfitta ai rigori contro il Brasile agli ottavi, ma il suo urlo incredulo dopo la rete all’Australia rimane una delle immagini più belle del Mondiale.

È stato il Mondiale del #10 messicano Giovani Alex dos Santos Ramírez, origini brasiliane, giramondo di professione fra Spagna, Inghilterra e Turchia, già vincitore di un titolo olimpico con la #10 sulle spalle proprio contro i verdeoro. Il dieci forse più sfortunato di questo Mondiale, il secondo per lui: nella prima partita, sotto un diluvio universale, segna una doppietta che viene ingiustamente annullata; agli ottavi segna finalmente un gol con un sinistro perfetto da fuori area, uno dei più belli della competizione, un gol che nessuno gli può portare via, pensa. Invece arriva la sostituzione di lì a poco e a due minuti dalla fine anche la doppietta avversaria, che infrange il sogno di una generazione di fenomeni.


Gli altri numeri #10 che si sono fermati agli ottavi, senza lasciare traccia: l’uruguayano Diego Forlán Corazzo, il greco Giorgos Karagounis, il nigeriano John Michael Nchekube Obinna, lo statunitense Mikkel Morgenstar Pålssønn Diskerud.


I #10 che si sono fermati ai Gironi

È stato il Mondiale del #10 inglese Wayne Mark Rooney, nel bene ma soprattutto nel male. Il grintoso inglese voleva riportare la sua nazionale fra le migliori del mondo, cosa che non accade da un qualche anno. Spogliatoi spaccati, allenatori che vanno e vengono, ricambi generazionali al ribasso e una tradizione innegabilmente avversa continuano anche in Brasile e così l’Inghilterra si trova fuori già dopo due partite. Rooney segna finalmente il suo primo gol ad un Mondiale alla terza partecipazione, con un facile appoggio sottomisura dopo un’infinita serie di tentativi a vuoto.

È stato il Mondiale del #10 ivoriano Gervais Lombe Yao Kouassi detto Gervinho, stella degli elefanti africani. Due gol ed un assist in tre partite alla sua seconda partecipazione ad un Mondiale, nell’annata della sua esplosione definitiva. Gli africani si aspettavano molto dalle sue giocate e dalla sua velocità e lui di certo non ha deluso. Segna all’esordio con un colpo di testa, segna alla seconda con una serpentina fantastica sul lato sinistro dell’area di rigore e fornisce un assist nella terza, sfortunata, partita, prima di arrendersi di fronte all’ingenuità di un connazionale che regala agli avversari un calcio di rigore all’ultimo minuto.

È stato il Mondiale del #10 ecuadoriano Walter Orlando Ayoví Corozo, terzino sinistro che al terzo tentativo finalmente riesce a partecipare attivamente alla competizione. La prima volta, giovane, pur essendo nei ventitre non scese mai in campo; la seconda volta venne inspiegabilmente lasciato a casa; questa terza si è presentato da titolare ormai indiscutibile, con la #10 sulle spalle. Il numero non è quello che solitamente si presta alla posizione in campo che ricopre, ma basta guardare il suo piede sinistro per comprendere il motivo di quel numero di maglia. Ayoví lo onora con due assist da calci piazzati in tre partite, che però non bastano per portare la nazionale sudamericana agli ottavi.

È stato il Mondiale del #10 ghanese André Morgan Rami Ayew, figlio dell’indimenticabile Abedi Pelé, già campione mondiale under-20. Ala veloce ed abile nell’inserimento, riesce a marchiare il Mondiale alla sua seconda partecipazione proprio con un sinistro fulmineo sul primo palo dopo un’incursione in area di rigore. Sicuramente uno dei migliori della spedizione africana in Brasile, non fortunata già dai sorteggi ed inserita in un girone di ferro. Ripaga il numero sulle spalle con un altro gol alla quotata Germania, questa volta con un ottimo colpo di testa ad incrociare. Ayew non riesce nell’impresa di portare avanti la sua squadra, ma di sicuro il padre ne sarà comunque fiero.


Gli altri numeri #10 che si sono fermati ai gironi, senza lasciare traccia: il croato Luka Modrić, il camerunense Vincent Aboubakar, lo spagnolo Francesc Fàbregas Soler, l'australiano Ben Hallloran, l'italiano Antonio Cassano, il giapponese Shinji Kagawa, l'honduregno Mario Roberto Martínez, il bosniaco Zvjezdan Misimović, il portoghese Adelino André Vieira Freitas, l'iraniano Karim Ansarifard, il sudcoreano Park Chu-Young ed il russo Alan Elizbarovič Dzagoev.

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